Imre Makovecz
La tensione dell’architettura oltre il possibile
di Ivana Carbone
in: Architetture e città del III millennio, 2010 – Edizioni dell’Anna, Roma
Interprete sublime della complessità del reale e del mondo delle idee che si celano dietro un prodotto architettonico, Imre Makovecz è architetto di fama internazionale e portavoce di un’identità nazionale che si traduce nella sua poetica.
Nato a Budapest nel 1935, dove svolge attività professionale con il gruppo MAKONA di cui è fondatore, e attivo in Europa dalla fine del 1950, Imre Makovecz è anche tra i riferimenti più saldi nell’operazione culturale che rimanda all’architettura una funzione educativa, in una contemporaneità satura di significati e povera di ideologie.
Vivere nei decenni tra i più travagliati della storia della sua nazione ha significato una consapevolezza profonda dell’appartenenza alla cultura magiara, il desiderio di salvaguardarla, conservando valori radicati nell’humus locale.
Il lavoro di Imre Makovecz inizia con una critica, prima alla massificazione e all’uniformità prefabbricata delle opere dell’architettura comunista, e poi alla globalizzazione e alla cultura aziendale, e alle sue invasioni economiche e mediatiche.
Dopo essere stato “esiliato” nel Corpo Forestale, a seguito dell’opposizione alla pratica imperante dell’anonimato della prefabbricazione, che nell’Ungheria socialista disperdeva sapienze materiali, conoscenze ed emozioni, ha dovuto ad un tratto cambiare fronte.
Dopo la caduta del Regime comunista nel’89, e l’irruzione di una cultura capitalistica e globalizzata d’impresa che ha trasformato l’Ungheria, Makovecz, attraverso le sue opere, allude all’identità nazionale, superando omologazioni o preteso linguaggio universalmente valido indipendentemente dai contesti. La sua opera esprime una sintesi di tradizione e modernità, in un organicismo vivo e legato alla sua terra, proprio mentre negli anni Sessanta veniva accolta in Ungheria, sull’onda della scena modernista, l’architettura dell’International Style priva di richiami a quelle forme storiche e tradizionali che contribuivano a sottolineare le differenze, in nome della necessità di ricercare un comune denominatore contro il culto dell’Ego. Walter Gropius, già nel ’37, proclamava l’avvento di “una moderna impronta unitaria, condizionata dai traffici mondiali e dalla tecnica mondiale” in ogni ambiente culturale.
Si profila come risposta la tendenza organica, da cui emergono valori come individualità ed espressività, e dove la posizione filosofica dell’olismo che vi sottende interpreta la forma come irriducibile ad una somma o combinazione di elementi.
La complessità insita nei luoghi e difficilmente decodificabile in canoni è un presupposto della poetica del Maestro ungherese. L’idea dell’organico vivente sembra consistere nel saper dare all’opera architettonica la stessa coerenza che organizza gli esseri viventi. In tale ottica, la composizione architettonica tenderebbe ad avvicinarsi al comportamento di un organismo vivente.
Più in generale l’architettura organica magiara si sviluppa nell’ambito della scadenza millenaria della mitica fondazione del Regno del 1896, con il fervido obiettivo di definire l’identità culturale e nazionale del Paese. In questa matrice etnopopolare – dice Makovecz – “ricerco una spiritualità attuale che consenta di pensare direttamente sul piano visivo, in contrapposizione all’hegeliano pensiero dualistico. Nell’arte popolare cerco i segni, o meglio la struttura dei segni, capace di offrire un punto di riferimento alla mia concezione di vita.” Attraverso questa, la finalità è riuscire ad affrontare l’architettura che diventa vita nel dramma del rapporto tra pieno e vuoto, tra storia e geografia, tra progettista e committenza e maestranze.
Gli spazi interni sono un esempio di suggestione; l’uso dei materiali diversi sottolinea il contrasto in un gioco di rimandi enfatizzato dalla luce. A differenza di altri interpreti, la cui poetica presupponesse comunque un’adesione alla dottrina steineriana antroposofica, Makovecz non ha copiato formalismi espressivi ma, interiorizzandone il portato simbolico e concettuale, ne ha rielaborato gli assunti, come del Goetheanum di Steiner, in una sorta di simbolismo magico, tipico della propria tradizione nazionale.
L’opera di Makovecz trae ispirazione principalmente dal suo popolo. I valori atemporali dei messaggi ancestrali, dei simboli, le radici pagane e l’animismo dell’architettura popolare diventano ancora più importanti in un contesto sociale in rapida trasformazione. Scrive nei suoi “Diari” che il linguaggio dei segni, di forme e simboli si è reiterato attraverso i secoli diventando quasi una presenza inalterata nell’arte come nella mitologia popolare.
Nelle sue opere, con le loro guglie, cuspidi, campanili o torri, si rintracciano elementi antropomorfi, fotomorfi e zooformi, riflesso di una cultura arcaica che si reitera conservando le radici profonde. L’albero è l’elemento naturale compartecipe della realizzazione architettonica al punto che simbolicamente ne contiene l’anima: un edificio nato dalla terra, i cui frutti diventano opera d’arte, rimanda inoltre alla tradizione popolare secondo cui alla nascita di un bambino si dovrebbe piantare un albero da frutto, interpretato come una sorta di alter ego. Altrettanto presenti nelle sue opere sono i motivi geometrici ed astratti, o esoterici come il totem, il numero sette, il tulipano, che rimanda implicitamente alla fertilità e a connotazioni simboliche nazionali, ma anche al mondo immateriale.
Il mondo immateriale viene a configurarsi come un fondamento per quello concreto, materiale, dove il “non manifesto” è conseguenza del valore attribuito ai significati degli archetipi e del simbolo, è un universo simbolico di forze sottili al punto che “quando l’impossibile tocca il materiale desideroso di scaturire fuori dall’informe, è quello il luogo, l’architettura stessa”.
La idealizzazione della rappresentazione supera l’oggettività del costruito. L’architettura non esplica solo una funzione pratica. Esprime una realtà non solo materica, ma spirituale.
Egli sostiene: “…l’intenzione originale della nostra architettura era di creare una connessione tra terra e cielo, una connessione che illumini ed esprima il movimento e la posizione dell’uomo per creare qualcosa di magico, tessendo un invisibile incanto intorno ad esso”.
La propensione verso valori spirituali si evince ovunque nella sua produzione architettonica, insieme ad una punta di misticismo. Egli, cercando di tradurre consapevolmente alcune istanze di ordine superiore afferma: “è importante che l’architettura si sviluppi non soddisfacendo il suo narcisismo storico o limitazioni generiche, ma dando forma ad uno spirito universale”. Nell’epoca che ha riconosciuto come universale il linguaggio dell’architettura modernista, l’opera di Makovecz si pone come una differenziazione sostanziale, come reinterpretazione contemporanea di tradizione e valori archetipici insiti nell’inconscio collettivo.
Anche i principi classici della geometria euclidea sono reinterpretati e in parte sovvertiti. Valga ad esempio il noto Auditorium Stephaneum dell’Università Cattolica di Piliscsaba, dove l’armonia dei motivi dell’architettura classica e rinascimentale si fonde con lo squilibrio del tamburo e della cupola fortemente inclinati dell’Aula magna.
La forza espressiva del disegno della Cattedrale cattolica di Apor Vilmos ter a Budapest, la sua complessità e contemporaneamente coerente ed inscindibile composizione dell’insieme trasmette, attraverso una lettura sensibile, una percezione di singolare equilibrio o comunque un’atmosfera tesa verso valori non contingenti.
L’aspetto sublime che ne deriva è espressione del senso di intima leggerezza che va oltre la materialità del costruito.
Sulla tensione verso l’impossibile attraverso l’uso dei materiali e la forma plasmata, Makovecz scrive in “Quello che è realmente accaduto e quello che non è accaduto”: “L’architettura accoglie tra i suoi materiali l’altro, il rinnegato, l’inconfessabile, l’oltre al di là del possibile. Quando l’impossibile tocca il materiale desideroso di scaturire fuori dall’informe, è quello il luogo, l’architettura stessa […], di quello che sarebbe potuto essere”.
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Imre Makovecz is an internationally renowned architect whose poetics shows the value of his national identity through a sublime interpretation of the complexity of reality and ideas which are hidden beyond an architectural realization.
He defines his work as living organic architecture inspireted by people and nature from his country and by R. Steiner ideas.Makovecz understanding of immaterials stands out as a synthetic product of tradition and modernity which tends to behave as an organism being. The nonmaterial world is meant as the basic at the concrete one in which the unseen comes out from the significances of archetypes and symbols.
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